La prima cosa che va riconosciuta a Letizia Russo (riduzione drammaturgica) e a Andrea Baracco (regia) è un enorme coraggio. Perché approcciare un testo come “Il maestro e Margherita” è impresa ardua. Il romanzo di Bulgakov, oltre ad essere uno dei più importanti del 900, è anche uno dei più complessi: oltre trecento pagine in cui si alternano, intrecciano e fondono tre piani narrativi. Innanzitutto quello dell’amore -dilaniante e dilaniato- tra il Maestro e la Margherita del titolo. Poi quello del processo ed esecuzione di Jeshua (Gesù) nell’antica Gerusalemme e dei dilemmi interiori che questi provocano in Ponzio Pilato. E infine la visita nel mondo dei mortali di Woland/Satana, che assieme alla sua banda di aiutanti è alla ricerca della Regina per il suo consueto sabba/ballo dei dannati.

La prima sfida della trasposizione da romanzo a palco è quindi quella di trasformare una narrazione fortemente frammentaria e con continui salti temporali in qualcosa che -pur non perdendo il ritmo rutilante e quella sensazione di giro su una giostra- non provochi confusione nel pubblico. Sfida vinta? Assolutamente sì. E grazie a diversi fattori.
Primo: una scenografia ottimamente studiata. le tre pareti che chiudono il palco inizialmente vuoto nascondono porte e porticine da cui gli attori entrano, escono o solo si sporgono per mostrare alla platea degli oggetti (molte volte accade con dei telefoni), creando un movimento continuo e passando senza soluzione di continuità da una scena all’altra, riuscendo allo stesso tempo a non “impastare” la narrazione. Complici anche le soluzioni sceniche utilizzate per distinguere le diverse vicende, sempre fortemente d’impatto pur nella loro semplicità. Basti pensare all’incontro tra Jeshua e Pilato, con la stola rossa di quest’ultimo ad attraversare in diagonale l’intero palco e con i due protagonisti agli estremi della diagonale, a sottolineare la distanza che Pilato vorrebbe attraversare ma che rimane incolmabile.
Secondo: una compagnia di attori superba che -a parte i protagonisti principali, su cui torneremo dopo- si divide tra diversi ruoli secondari con efficacia, riuscendo a mantenerne sempre distinta la caratterizzazione, senza fare mai pensare allo spettatore “ma quell’attore chi è, in questo momento?”
Terzo: il riordino di alcune parti del romanzo originale, in particolare la parte su Pilato i cui frammenti nel testo originale vengono accorpati in un numero non eccessivo di scene, rendendone così più facile la fruizione.
Tutto ciò ha permesso di portare sul palco uno spettacolo certamente bulimico (sia nel numero di eventi raccontati che nella durata, ben 3 ore) ma mai confuso. Le vicende del romanzo ci sono praticamente tutte, così come quel bilico tra ironia, dramma e condanna sociale del testo di Bulgakov.

I protagonisti principali, si diceva. Diciamolo subito: pur avendo nel titolo i due sfortunati amanti, il vero protagonista dello spettacolo è innegabilmente Woland. Personaggio già fortemente ammaliante nel romanzo, grazie a Michele Riondino raggiunge vette da mattatore davvero altissime. Il suo ghigno e la sua risatina isterica, uniti alla fantastica prova vocale -con continui cambi tra due registri vocali diversi, tra il pazzo e il minaccioso- ricordano immediatamente l’indimenticabile Joker di Heath Ledger. E da lui eredita anche l’apparente stato confusionale, quel “fare le cose a caso” che cela invece un piano ben preciso e lucido.

Chi ha letto il romanzo potrebbe obiettare che anche lì Woland è l’indiscusso mattatore della prima parte, con i suoi giochetti e i suoi tiri mancini, fino alla scena dello show teatrale di magia nera che fa da ideale passaggio del testimone di protagonista tra lui e Margherita. Vero. Qui però Woland rimane ben presente anche nella seconda parte dello spettacolo e la sua andatura claudicante (altro tratto dell’eccezionale interpretazione di Riondino) continua ad oscurare sia il Maestro che la stessa Margherita. Anzi, è nella seconda parte che Woland mostra maggiore spessore e umanità: pur mantenendo un apparente distacco, sarà lui a risolvere per il meglio le vicende dei due amanti. Ma su questo torneremo tra un po’, dopo aver toccato altri punti.

Importante spendere qualche parola per gli assistenti di Woland. Divertentissimo il Behemoth di Giordano Agrusta, che con la sua fisicità possente unita a movimenti buffi trasmette perfettamente la suadente goffaggine del gattone parlante. Brava anche Carolina Balucani, una Hella che abbandona il ruolo da femme fatale del romanzo per diventare una disturbante “bambina cattiva”. Peccato però che manchino per lei momenti da protagonista e che all’interno del trio di aiutanti venga lasciata sempre sullo sfondo. Anche la famosa scena in cui ammalia e seduce l’impiegato del teatro viene risolta sbrigativamente.

Si è lasciato volutamente per ultimo Alessando Pezzali. Il suo Korov’ev è semplicemente superlativo: estremamente inquietante per tutta la prima parte dello spettacolo, con la sua presenza scenica (magro, calvo, pallido), i suoi movimenti dinoccolati ed i suoi versi sa trasmettere tutta l’angoscia nel trovarsi davanti una creatura non umana. Ma nella seconda parte sa mostrasi anche gentile, educato ed elegante, come nel suo incontro con Margherita per invitarla al Sabba.

Interessante la scelta di dividere Francesco Bonomo tra due ruoli, quello del Maestro e di quel Ponzio Pilato su cui il primo ha scritto, in un legame anche visuale tra autore e personaggio. A due facce la sua interpretazione: come Pilato convince pienamente, bravo a trasmettere tutta l’inquietudine interiore di un uomo dilaniato tra il suo ruolo, il suo legame con il Sinedrio e i dubbi che l’incontro con Jeshua fanno sorgere in lui. Qualche dubbio invece per il suo Maestro, che rispetto al romanzo mantiene il senso di sconfitta e di incapacità di reagire ma perde quel senso di dignità con cui Bulgakov gli fa affrontare questo suo abbandono agli eventi.

Ultima ma non ultima, la Margherita di Federica Rosellini. Eroina del romanzo, figura che si impone nella sua seconda parte e che con il suo agire determina l’evolversi della vicenda, a perfetto contraltare della passività del Maestro. Come già detto, nello spettacolo la forte presenza di Woland/Riondino limita un po’ l’importanza del suo ruolo ma la Rosellini è comunque brava nel caratterizzare la trasformazione -in tutti i sensi- di Margherita dopo lo show di magia nera. Trasformazione da donna a strega, nella bella scena del volo sulla scopa tradotta sul palco in un’altalena, sulla quale dondolandosi la Rosellini è capace di farsi carico con la sua sola presenza scenica e della sua bravura recitativa della narrazione di ciò che la nuova Margherita “cattiva” fa per sfogare la propria rabbia nei confronti di chi ha condannato il Maestro alla sua apatia. Trasformazione da donna bloccata nel suo ruolo sociale a creatura emancipata, che decide di prendere le redini della propria vita e di essere disposta a tutto -persino a fare da sposa a Satana- pur di ritrovare il suo amato.

Un discorso a sé dev’essere fatto sul finale. ATTENZIONE! Questa parte conterrà diversi spoilers, quindi chi ancora non conosce per intero le vicende del romanzo e non vuole rovinarsi sorprese in caso di lettura futura valuti se fermarsi qui.

E’ questo il punto in cui lo spettacolo prende alcune deviazioni dal romanzo, di cui una decisamente sostanziale. Innanzitutto Woland: come già detto, è lui ad apparire come il vero protagonista. Mentre per Bulgakov è Margherita a fare da “deus ex machina” nella risoluzione degli eventi, qui Satana ha un ruolo maggiormente attivo e sembra che tutte le decisioni finali siano afferibili a lui. La cosa comunque funziona perché sottolinea uno degli aspetti più conturbanti dell’opera originale: il fatto che tra Dio e Satana sia il secondo ad ascoltare di più gli uomini, a tenere di più a loro. Pur avendo letto e apprezzato il romanzo del Maestro, infatti, non sarà Dio a salvarlo: “egli non merita la luce, ma merita il riposo” e così chiederà a Woland di dargli la pace. Dio è uno spettatore esterno, asettico nei suoi giudizi. Mentre Woland si muove tra gli uomini, li ascolta. E’ capace di enorme cattiveria ma sa anche essere magnanimo: è lui a forzare Margherita a chiedergli di riunirla al Maestro, ed è lui che darà all’eroina lo strumento per portare al Maestro la pace. Questo Satana sa in fondo essere più “padre” di Dio stesso.

Inversione di tendenza invece negli ultimi minuti dello spettacolo. Forse consci di come gli equilibri nel “protagonismo” tra Woland e Margherita sia stato mutato, nell’ atto finale lo scettro dell’azione torna alla Rosellini. Se nel romanzo i due amanti vengono avvelenati da un vino offerto da Korov’ev ma nello stesso tempo diventano immortali, qui il diabolico servitore di Satana dona a Margherita un coltello e sarà quindi lei a porre fine alla vita del Maestro prima e della sua poi, tagliando la gola di entrambi. Senza nessun cenno all’immortalità così guadagnata.

Davvero un peccato, invece, la scelta di eliminare la scena finale del romanzo, che porta a compimento anche la linea narrativa di Ponzio Pilato. Non sarà possibile quindi assistere all’incontro tra il Maestro e il procuratore della Galilea, in cui il primo chiede e ottiene che Pilato sia finalmente liberato dal suo tormento e possa ricongiungersi a Jeshua e parlargli -e apprendere da lui- come avrebbe sempre voluto fare. E non potremo nemmeno assistere alla ritrovata serenità dei due amanti, lasciati in un “eterno rifugio”. Lo spettacolo nega loro l’”happy ending” e li lascia piuttosto alle porte dell’inferno. E lascia negli spettatori un po’ di amaro in bocca -certamente voluto- che sottolinea e mette il punto finale su tre ore affascinanti, immersive e piene di tematiche anche molto importanti. Ore che pur con le differenze descritte fanno pienamente onore all’opera originale.

Luca Valenta / ©Instart

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