ore 21,50 Teatro Nuovo Giovanni da Udine
Fly me to the Saitama di Takeuchi Hideki (Japan 2019)
Ogni volta che il regista giapponese Takeuchi calca le assi del palcoscenico del Feff per presentare un suo film si porta anche un piccolo oggetto tecnologico di tendenza del suo paese. La scorsa volta mostrò una strana, piccola asta telescopica a getto d’acqua per l’igiene intima che faceva la differenza nelle tazze fantascientifiche del suo esilarante Termae Romae del 2012.
Questa volta si è trattato dello straordinario Poket Translator. L’oggetto, delle dimensioni di un cellulare a comando vocale, traduceva in tempo reale dal giapponese. Naturalmente, ogni volta la gag sortisce gli effetti d’apprezzamento desiderati sugli spettatori del Feff già parecchio ben disposti.
Hideki Takeuchi, lasciate le abluzioni e il tiepidarium dell’architetto Nippo-romano Lucius Modestus si concentra sulla rivalità campanilistica tra la città di Trieste e quella di Udine…ops! Tra la metropoli di Tokio e la prefettura di Seitama. Evidentemente non è solo un lapsus. Sia la Dragon Lady del Feff, Sabrina Baracetti, sia il regista giapponese durante la presentazione hanno giocato su questa similitudine in alcune gag per spiegare il senso (nonsense) della pellicola incentrata sullo storico antagonismo tra le prefetture nipponiche, una rappresentante di una cultura cittadina, urbana, ultra-sofisticata e snob; l’altra, al contrario, rustica, campagnola e grossolana. Il regista a partire da un famoso manga di Maya Mineo costruisce su questo tema una commedia pop, coloratissima e dai toni barocchi- psichedelici che nel suo genere non teme confronti.
Nel film si racconta che, secondo una leggenda metropolitana, gli zotici di Seitama in un futuro distopico esteticamente in bilico tra l’anime Lady Oscar di Riyoko Ikeda e Brasil di Terry Gilliam, saranno perseguitati ed emarginati dai nobilissimi e austeri abitanti di Tokio. Gli oppressi però metteranno in atto un ingegnoso piano delirante e eversivo, si infiltrano subdolamente nella metropoli per prendere il potere e sottomettere gli austeri cittadini.
Dopo mille avventure fantastico-demenziali in cui si amplificano e deformano le caratteristiche dei due luoghi e le attitudini dei suoi abitanti mettendo alla berlina abitudini e vizi, il piano strategico si compie tra mille risate e situazioni ai limiti di una piacevole insensatezza e nell’ultima scena vediamo i vincitori pronti a gettarsi nella battaglia di seimatizzazione di tutto il mondo.
Nel film tutta questa storia prende forma da un racconto che sentiamo da un autoradio. Una famiglia di cafoni di Seitama sta portando la figlia alla festa di fidanzamento a Tokio. I piani della ragazza però finiranno con le gambe all’aria.
Senza voler a tutti i costi riportare l’intricatissima trama che spiegata in questo modo perde molto della sua freschezza e per non incorrere in incresciosi spoiler si vorrebbe riflettere, almeno un attimo, sul senso di questa produzione del regista giapponese che forse è meno sprovveduto e superficiale di quello che si pensa.
Il tema del suo film non è per niente nuovo anzi è antico quanto la storia dell’uomo a tutte le latitudini. Per quanto riguarda l’Occidente uno dei modelli archetipici, in questo senso, è senza dubbio, la favola di Esopo, Il topo di città e il topo di campagna del VI sec a.C. in tutte le sue infinite varianti antiche e moderne.
Nel cinema pop italiano si pensi ai fratelli Caponi di Totò, Peppino e la malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque, Il conte Max di Giorgio Bianchi (1957) e tutta la commedia all’italiana basata sulla rivalità tra centro e borgata, tra nord e sud, Milano-Roma.
Due film simbolicamente possono riassumere la questione e sono Il ragazzo di campagna di Castellano e Pipolo (1984) e Caterina va in città di Paolo Virzì; possiamo agevolmente aggiungere anche tutto quello che ci sta in mezzo, cinepanettoni compresi. Gran parte dell’umorismo nelle arti italiane è costruito sulla rivalità città-campagna. Perchè questa cosa dovrebbe centrare con la recensione di questo film? Che cos’è che unisce in questo senso l’Italia e il Giappone?
Prima di tutto si ricordi il legame storico tra la cinematografia italiana e quella del Sol levante, il cinema neorealista italiano fino alla commedia classica è alla base della VII arte giapponese, per espressa dichiarazione dei suoi maggiori autori e per evidenza estetica.
La risposta più convincente al quesito è stata suggerita non solo dalle battute iniziali del film ma anche dal divertente calembour tra la Baraccetti e il regista cui si accennava più sopra. Storicamente, entrambe le culture risentono dell’estrema frammentazione del territorio e della loro società durante il medioevo.
Le prefetture giapponesi ricalcano i tanti territori feudali che per secoli si sono fatti la guerra nel paese del Sol levante così come le mura delle nostre città ricordano i tempi delle fazioni e delle famiglie rivali. Qualcuno a riguardo di Fly me to Saiama ricordava la vicenda di Giulietta e Romeo e la rivalità tra Montecchi e Capuleti.
Guardando questo film possiamo benissimo dimenticarci di tutto questo e goderci pienamente il divertimento che e lo spasso di una comicità senza freni, non dobbiamo pensare però che la cultura pop anche quella apparentemente più disimpegnata e leggera non possa rappresentare il mondo che ci circonda. Il Feff dimostra da 21 anni, con successo incredibile e meritato, che è possibile ridere e pensare allo stesso tempo. Come si diceva ai bei tempi: Sarà una risata che vi sepellirà.

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The Devil Fish di David Chuang (Taiwan 2018)
Questa pellicola che sulla carta aveva dei gran numeri e prometteva molto bene, in realtà, non ha mantenuto minimamente ciò che aveva lasciato credere. L’aspettativa e persino la suspance erano alte, prima di tutto perché non capita di frequente nei festival europei un film da Taiwan che pur avendo caratteristiche culturali simili sappiamo bene non essere la stessa Cina cui siamo abituati.
In secondo luogo la vicenda pareva interessante dal punto di vista antropologico e folklorico perché si presentava come ispirata ad un’antica leggenda dell’isola che racconta di particolari riti d’esorcismo che impongono allo sciamano di costringere i demoni che possiedono i malcapitati di trasferirsi in un pesce che successivamente deve essere fritto e gettato via.
Può sembrare un rito bislacco ma lo è solo ai nostri occhi. Il cinema di genere che a qualcuno può sembrare disprezzabile, ha in realtà contenuti accattivanti e prospettive spesso inedite. Questo vale tanto per i film Occidentali che per quelli asiatici.
La pellicola è il primo spin-off di una saga horror piuttosto nota e seguita in patria, The Tag along di Wei-Hao Cheng incentrata sulla presenza di una piccola diabolica bambina invasata. In questo lungometraggio invece si seguono confusamente diverse e pasticciate linee narrative che in qualche modo fanno da prequel.
Sostanzialmente si racconta della maledizione del demone pesce in grado di scatenare in chi lo mangia o ne viene morso, un’incontenibile follia omicida che si diffonde come una pestilenza tra la gente. Si dice anche di un Monaco taoista che possiede la forza di uno spirito benefico in forma di tigre. Da qui combattimenti, momenti terrificanti, sfide apparizioni e via di seguito in una confusa teoria dei più consueti e abusati stereotipi del cinema di genere.
Effetti speciali tutti in digitale di qualità appena sufficiente e di grana grossa. La sceneggiatura manca di raccordi e molto spesso sembra concepita da qualcuno che passava di li per caso. Come Horror non lo si può nemmeno considerare di serie z perché, almeno regala una certa cura nella fotografia e nelle ambientazioni e scenografie. Anche nella cultura occidentale esiste un riferimento alle strane vicende di un demone pesce associato al signore della collera omicida, la creatura infernale Asmodeo. Nel libro di Tobia dell’Antico Testamento si racconta di un enorme pesce che morde e induce alla follia. Questo riferimento è l’unico conforto che ci puo’ dare la visione di questo lungometraggio che per il resto è desolante.

© Flaviano Bosco per instArt

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