Seconda giornata della rassegna Grado Jazz, gioiello della corona di Udin&Jazz che da trent’uno anni rappresenta il meglio della musica di ricerca d’ispirazione afroamericana a livello italiano e internazionale all’insegna di una delle migliori voci del jazz degli ultimi cinque decenni.
Dee Dee Bridgewater esordì nel 1966 e da allora non ha mai smesso di destare meraviglia per le sue straordinarie doti vocali e interpretative. Solo per il piacere delle coincidenze è bello dire che nel 1994 Udin&Jazz ebbe l’onore di ospitare il quartetto di Max Roach nel quale figurava il grande trombettista Cecil Bridgewater primo marito della cantante che ancora ne porta il cognome. Prima di parlare dell’evento clou della giornata che si è aperta alle 5,30 del mattino con un emozionante concerto del pianista Claudio Cojaniz davanti al mare con il sole che sorgeva dalle acque, è il caso di raccontare anche delle sorprese del pomeriggio all’insegna di una delle tradizioni più antiche e originali della musica afroamericana che, come ha detto anche la Bridgewater, “ormai è una cosa che appartiene a tutto il mondo” perciò anche a noi.
Ore 18,30, per le vie del centro città: Bandakadabra. Formatisi a Torino nel 2005 con una lunga carriera di concerti e quattro CD all’attivo sono tre tromboni, susafono, tromba, sax alto, rullante e grancassa dotati di gran ritmo e di voglia di giocare e divertire il pubblico.
Nell’immaginario collettivo, cosa c’è di più Jazz di una marching street band con tanto di rullanti, basso tuba e tromboni “arrembanti”? Il primo eroe mitico della storia del Jazz, Buddy Bolden era uno spettacolare cornettista che letteralmente inventò il genere musicale con la sua band che sfilava per le vie di New Orleans a partire dal 1895.
Bolden non ha lasciato alcuna incisione delle sue prodezze che allora estasiavano e divertivano tutta la città, per il virtuosismo con il quale suonava il proprio strumento ma anche per i suoi lazzi e follie che facevano impazzire la gente. A finire in manicomio però alla fine fu lui. Prima che esistesse qualunque possibilità discografica per un musicista di colore del sud gli fu diagnosticata una demenza precoce (schizofrenia), fu così che, mentre nel mondo si spargeva la sua leggenda ed esplodeva l’età del jazz cantata da Scott Fitgerald, lui passò rinchiuso e sedato gli ultimi vent’anni della sua vita.
Le prodezze “marcianti” della Bandakadabra le possiamo sentire eccome. Le hanno potute sentire bene tutti i turisti e gli abitanti che si trovavano nel centro di Grado. Un lunghissimo serpentone di persone li ha seguiti mentre si esibivano in standard del dixieland e in bizzarre rivisitazioni di brani pop contemporanei. Era bellissimo vedere le famiglie che si affacciavano ai balconi per battere le mani ai musicisti, quelli che li seguivano ballando e ridendo alle loro battute e scherzi ritmici, i turisti che salutavano ridendo dai tavolini dei bar e delle pizzerie già alle prese con le impepate di cozze o con le capricciose; eppure tirava vento e a tratti pioveva ma niente ha potuto fermare la musica e la felicità di tanti, un paese in festa, una tribù che balla attraverso le sue vie.
Tra i brani una versione swingata addirittura di “You Shook me all Night Long” degli AC/DC e poi “Beautiful” di Christina Aguilera e poi i classici del jazz “stradaiolo”, “St.James Infirmary Blues” di Cab Callaway, “Oh Didn’t He Ramble” di Louis Armstrong, lo standard “When the Saints Go Marching in” e poi “Summertime”, ritmi di Calypso e tante altre celeberrime canzoni che hanno continuato ad eseguire anche all’Arena Parco delle Rose prima del main event. Più di cento anni fa il jazz è nato proprio dalla gioia collettiva che si sprigionava dalle strade, dalla gente, dai ritmi, dai suoni; molta acqua è passata sotto i ponti ma quell’energia è ancora fra noi e di certo i “pifferai magici” della Bandakadabra sanno come farla scatenare.
Ore 21,30, Arena Parco delle Rose: Dee Dee Bridgewater in concert. Senza dubbio uno degli eventi più attesi del festival, una vera regina della musica che non smette di stupire e affascinare con il fascino assoluto della propria voce dopo tantissimi anni di luminosa carriera.
Per trovare un modo meno retorico e pedissequo di raccontare le meraviglie che sa mostrare è forse il caso di partire proprio da un episodio della sua carriera che in qualche modo ci guidi fin dentro la sua esibizione. Nel 1978, quando con più di un decennio di palcoscenici e collaborazioni alle spalle, aveva già fatto la famosa “gavetta” che oggi purtroppo si risolve con qualche comparsata nei talent show, Denise Eileen Garrett detta Dee Dee partecipò ad uno spettacolo “All Black” che le diede grande notorietà e meritato successo: “The Wiz. The Super Soul Musical -Wonderful Wizard of Oz”. Interpretava Glinda la strega buona del sud che aiuta Dorothy a ritrovare la strada di casa camminando sopra l’arcobaleno, dopo che un tornado l’aveva catapultata nel mondo di Oz.
Nel primo pomeriggio su Grado sembrava proprio che stesse per abbattersi uno spaventoso fortunale proprio come quello della favola di L. Frank Baum. Nuvoloni neri all’orizzonte, raffiche di bora che spazzavano la costa e qualche scroscio di pioggia “orizzontale” a causa del vento non facevano presagire nulla di buono per la serata e, invece, forse anche per i buoni influssi delle danze della Bandakadabra poco prima dell’esibizione tanto attesa, il tempo si è di colpo rasserenato lasciando spazio solo all’attesa e all’impazienza del folto pubblico che ha riempito ogni posto possibile.
Nelle prime file tra i soliti alti papaveri locali, tra fotografi e giornalisti vari, anche una giovane cantante italiana di una certa fama nazional-popolare, più volte giudice di X-Factor, tale Rosalba Pippa, venuta ad omaggiare la diva che fu a Sanremo ben prima di lei in un memorabile duetto con Ray Charles, non credo serva aggiungere altro.
Vestita con un incantevole pagliaccetto tutto lustrini, i jeans alla pescatora e un panama sulla testa rasata lucida, finalmente sale sul palco Dee Dee Bridgewater e comincia subito ad ingraziarsi il pubblico con meravigliosi sorrisi a 32 denti, spiegando il nuovo progetto che la vede in tour in Italia con un gruppo di giovani ottimi musicisti nostrani. Dice che ultimamente i molti musicisti americani, vista la situazione epidemiologica non si muovono volentieri fuori dalla madrepatria, così lei ha deciso di partire sola e di trovare chi l’avrebbe accompagnata strada facendo in un nuovo progetto di rilettura dei classici della sua carriera.
Il primo brano, “Sea Jurney” è dedicato all’amico Chick Corea, recentemente scomparso. Tratto da “Children of Forever” del 1973 cui la Bridgewater partecipò.
Si mette subito in luce l’atipica sezione ritmica del gruppo italiano della cantante, formato dalle ottime Rosa Brunello al Contrabbasso e Evita Polidoro alla batteria. Non capita spesso di vedere una coppia così affiatata e non è una questione di genere. Le ragazze “picchiano “ duro e dimostrano di essere delle grandi professioniste. Ottimo il virtuosismo della tromba di Mirco Rubegni. La Bridgewater non nasconde per niente la propria soddisfazione per la bravura dei propri giovani musicisti che la fanno divertire e che la sostengono anche se la sua voce sola basterebbe a riempire tutta quell’atmosfera. Rivolgendosi al tenor sassofonista Michele Polga gli dice che alla sua età è molto intrigante farsi sorprendere da un giovane uomo come sta facendo lui con il suo sassofono. Finisce per abbracciarlo dopo un passaggio decisamente complicato in assolo. E’ tutto il pubblico che vorrebbe abbracciarla invece, lo fa con gli applausi scroscianti.
“Unespected Days” è sempre tratto dal primo album di Stanley Clarke. La cantante, a rischio di dire una banalità da parte nostra, sul palco sembra una bambina piena di brio e intelligenza. La sua voce è lirica, calda, suadente; gioca perfino con un ventaglio civettuolo mentre canta apparentemente non curandosi di ciò che le sta incontro. E’ un Jazz urbano e scatenato nei ritmi e nei colori perfettamente sostenuti dalla sezione ritmica.
Ricorda la Bridgewater che quando era piccolina il suo giorno speciale era il martedì, quando poteva passare la sera con il proprio padre. Da un Juke Boxe un giorno sentì una canzone che la fece innamorare del Jazz. “Doodlin” di Orace Silver racconta di due sposi novelli e della loro luna di miele passata per lo più in camera a far cantare l’amore. Il grande pianista per la prima e l’ultima volta in carriera scrisse per lei un album intero di meravigliose canzoni che la Bridgewter raccolse anni dopo il “Love and Peace: A tribute to Orace Silver” e che onora ancora oggi con meravigliose improvvisazioni scat che sul palco di Grado in questo caso sono servite a mimare una tromba con sordina Mikey Mouse, davvero sbalorditivo. Nel brano c’è lo spazio per un bell’assolo della contrabbassista pieno di energie positive e trattenute che prosegue in quello molto misurato e preciso della batterista Evita Polidoro, una bella sorpresa anche lei; nel frattempo Dee Dee continua a duettare in scat con la tromba e la vita sembra davvero bella e viene una gran voglia di ballare.
Come diceva Son House “Il blues è tutto quello che succede tra un uomo e una donna”. Aveva ragione da vendere.
‘Round Midnight di Thelonious Monk è uno dei classici indiscutibili del jazz, la cantante ha voluto presentarlo nella versione di Carmen McRrae, un’altra delle grandi voci della musica. “I dolci ricordi arrivano di solito attorno alla mezzanotte quando il mio cuore è ancora con te” canta sprigionando una sensualità profonda e una voce matura e morbida che sa giocare con il vibrato. Vicino al piano la cantante ha fatto sistemare un grande mazzo di gigli rosa che quando canta seduta le incorniciano il volto, fiore tra i fiori. E’ davvero una canzone calda da spazzole sul rullante e Evita Polidoro lo sa bene.
Si ritorna all’universo di Orace Silver con un brano davvero particolare che racconta un episodio cruciale della storia del jazz. Dedicata alla baronessa Kathleen Annie Pannonica de Konenigswarter discendente della famiglia Rotschild, rievoca gli anni ‘40 e ‘50 durante i quali la facoltosa baronessa, innamorata del jazz, finanziò e produsse moltissimi musicisti del BeBop che aiutò in ogni modo, creativo e finanziario: “Lei aveva un sogno che un giorno il jazz sarebbe stato la musica del futuro, Everybody loves Nica’s Dream!”. E’ un BeBop venato di ritmi caraibici che viaggia come un treno rapido sui binari tracciati dalle corde del contrabbasso sulle quali ricama vertiginosi virtuosismi.
La Bridgewater a questo punto racconta del suo progetto musicale per riappropriarsi delle sue ancestrali radici africane. In Mali collaborò con il pianista Cheick Tidane Seck che aveva già lavorato con Hank Jones, arrangiando tradizionali musiche dei Griots. Nel pluri premiato album che ne scaturì (Red Earth, A Malian Journey, 2007)la cantante volle includere anche una propria versione del celeberrimo Footprins di Wayne Shorter che intitolò “Long time ago” dopo una lunga telefonata con il sassofonista per farsi approvare il testo. Il risultato è struggente e pieno di “Mal d’Africa”, una nostalgia lontana che il pianoforte di Claudio Filippini sa evocare al meglio. “Our lives are full of Sorrows, brothers and sisters, ma abbiamo ancora un futuro per piangerle”. La cantante si impegna in uno scat con la batteria davvero inaudito e sbalorditivo
Un’altra bella canzone di Orace Silver che la cantante dice di amare da sempre, da quelle lontane cene con il padre è per l’appunto “Song To my Father” che dedica a tutti i padri presenti compresi i tre che ha sul palco. In un prolungato fraseggio scat in cui sfida la tromba e il sax si mangia letteralmente le loro parti che si trovano relegati a preziosi comprimari; di fronte ad una forza della natura del genere c’è poco da fare.
Con “Butterfly Dream” si ritorna ancora allo strepitoso primo album di Stanley Clark del quale la cantante ricorda le jam session a casa di Chick Corea, momenti magici. Un altro grande vocalist che partecipò al disco oggi purtroppo semi sconosciuto, Andy Bey dalle incredibili doti interpretative cui la cantante dedica il pezzo e se lo dice lei…
Una delle eroine in jazz della Bridgewater è la cantante attivista Abbey Lincoln che insieme a Max Roach incise We Insist! Freedom Now Suite (1960), caposaldo della rivendicazione dei diritti civili negli Stati Uniti. La Lincoln scrisse e cantò anche un meraviglioso blues per Thelonious Monk, “Blue Monk”. Questa volta la Bridgewater con il suo gioco di voce riproduce il suono perfino di un trombone, segue un penetrante assolo di Rubegni alla tromba con sordina da far venire i brividi.
Ultimo brano in scaletta è “Spain” di Chick Corea, il cui spirito ha aleggiato per tutta la durata del concerto. Rosa Brunello imbraccia il basso elettrico e sono ancora meraviglie di corde pizzicate e naturalmente di vocalizzi.
Non poteva mancare un caloroso bis chiesto a gran voce dalla platea entusiasta. “Space Captain” di Herbie Hancock, portata al successo da Joe Cocker, è un funky stratosferico, divertentissimo e superveloce che impegna tutta la tonante voce soul della Bridgewater che stende tutti cantando “Learning to live Togheter” ad libitum perfino allontanandosi dietro le quinte dopo i saluti di rito.
E’ finito, dobbiamo far finta di niente, come se non fosse successo niente, come ha detto ironicamente la cantante in una battuta. Non è proprio possibile, non ci riusciremmo nemmeno se volessimo. Noi che eravamo lì, l’abbiamo visto il miracolo della voce, non ce lo dimenticheremo tanto facilmente.
Alla fine tutti hanno capito cos’era quella forza di tornado che si stava scatenando in cielo: era lei, Dee Dee the Good Witch of the South.
© Flaviano Bosco per instArt