Foto © 2019 Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

Un malaugurato contrattempo con i bagagli aveva impedito che i preziosi strumenti musicali del gruppo giungessero in tempo per l’esibizione. Va dato merito al paziente pubblico e alla solerzia dell’organizzazione che durante l’attesa, si è prodigata in ogni modo per fare sentire a proprio agio gli spettatori nel foyer e negli spazi antistanti il teatro. Dopo la prima ora di ritardo qualcosa è sembrato muoversi, alcuni hanno notato un veloce furgone proveniente dall’aeroporto che scaricava le custodie. Qualcosa stava per succedere. Un bell’applauso del pubblico in trepida attesa ha salutato la scongiurata catastrofe.

Alla fine dell’esibizione il magnifico percussionista Zakir Hussain ha ingollato all’americana, in un sol sorso, il generoso calice di vino della pace che gli era stato offerto sul palco dall’organizzazione, mimando poi il gesto di d’infrangere il bicchiere come se si trattasse di un qualunque distillato di patate della steppa, dimostrando così che, pur essendo un esteta delle percussioni, del dolce, prezioso, nettare degli dei non capisce granché. Poco male, nessuno è perfetto come si diceva in quel film.

E’ stata l’unica nota stonata di un concerto di memorabile perfezione, tanto raffinato da apparire quasi astratto. Il trio presentava la sua ultima incisione, Good Hope uscito esattamente da due settimane. Oltre al musicista d’origine indiana, a brindare a fine concerto, c’erano il bassista Dave Holland e il sassofonista Chris Potter.

Il nome del gruppo e la musica che suona si riferiscono alle diverse correnti d’acqua degli affluenti che nutrono il medesimo fiume e che contribuiscono sinergicamente a costituirne la forza e l’impeto o, allo stesso modo, l’effetto delle correnti marine nel loro mescolarsi. Per traslato, è la stessa energia che sostiene il Vino della Pace celebrato dal festival che origina da alcune centinaia di vitigni (550) provenienti da ogni paese ove la vite alligna e rallegra l’uomo con il suo generoso liquore (Cantina produttori Cormòns). Non serve nemmeno dire che i tre rappresentano il livello massimo del Jazz contemporaneo; ognuno di loro è la punta di diamante di una tradizione musicale tra le più ricche e preziose della musica contemporanea

Lo scorso anno la medesima formazione si era impegnata in una lunga e feconda tournée europea, si erano visti anche Udin&Jazz; da quell’esperienza sono scaturite l’ispirazione e la voglia di incidere nuovi brani ed emozioni. Il disco, fresco di stampa, è stato presentato nel concerto di Cormòns, in quella che può dirsi un’anteprima.

Good Hope, Buona Speranza, in tutti i sensi, è proprio quello di cui abbiamo estremo bisogno in questi tempi sfortunati. Il Jazz che il trio propone è meditativo, equilibrato, tutto scritto, elegante e liquido come i suoni delle tablas di Hussain e il vibrare delle corde del contrabbasso di Holland.

L’ancia di Potter propone ed esprime una brillantezza naturale e smagliante completamente priva di ogni virtuosismo inutile e narcisistico. E’ davvero apprezzabile tutto questo in un panorama musicale sempre più competitivo e sterile dal punto di vista culturale ma anche da quello del puro intrattenimento. Spesso la voglia d’apparire, primeggiare e pavoneggiarsi porta gli interpreti a strafare così da insterilire e vanificare i loro sforzi di condividere le proprie emozioni con il pubblico; l’ascolto, di conseguenza, risulta spesso pesante, faticoso e perfino fastidioso.

Non è proprio il caso del Cross Currents trio, sembra perfino banale dirlo ma la prima impressione che si ha ascoltandoli è di semplicità e piacevolezza. Non servono parole troppo elevate o auliche per descrivere quelle sensazioni. La semplicità è la caratteristica del vero genio e i tre ne hanno da vendere.

Quelle che seguono sono le dichiarazioni in merito di Dave Holland riportate da www.jazzineurope.mfmmedia.nl (la traduzione è mia):

Uno degli aspetti più ragguardevoli del suonare in un gruppo di improvvisatori è la spontanea interazione e dialogo che si instaura tra i musicisti. Le tradizioni del Jazz e della musica indiana sono due delle più sviluppate forme di improvvisazione musicale e contaminarle significa espandere le possibilità creative di entrambe. Il progetto è stato una sorgente d’ispirazione e crescita per tutti noi del Cross Currents Trio. Siamo felici di aver catturato sul disco la gioia e il senso d’avventura e l’azzardo che abbiamo avvertito suonando insieme”.

Detto questo non significa minimamente che la loro musica sia alla portata di tutti né per l’esecuzione, né per l’ascolto. Il loro è un linguaggio musicale sofisticato e spirituale, quasi religioso, che richiede attenzione e perfino una certa dedizione per essere compreso e apprezzato. Qualcuno ha scambiato un certo loro olimpico distacco nell’esecuzione, la loro compassata serenità per supponenza e accademismo.

E’ vero il contrario; la loro è una forma di meditazione in musica e quello che sembra un eccesso di compostezza o contegnosa misura, in realtà, è una riflessione guidata dalle autorevoli e melodiche linee di basso di Holland, dai giochi timbrici delle percussioni di Hussein e dai pirotecnici e luminosi passaggi del sassofono di Potter. Il tutto sostenuto da un’energia gentile che è possibile riferire ad un concetto della dottrina buddista tra i più antichi e fondanti quella filosofia.

Con il termine sanscrito Chanda s’intende l’intenzione d’agire per superare gli ostacoli che avvelenano la nostra esistenza quando è votata solamente alla materialità. E’ l’aspirazione a comporre i dissidi e a considerare in modo retto la nostra vita senza farci turbare dalle passioni terrene. E’ la precisa intenzione di staccarci dagli affanni della contingenza.

Con lo stesso termine nel sud dell’India e soprattutto nel Kerala, si indicano una varietà particolare di tamburi, il cui suono secco e rigido ha tradizionalmente proprio la funzione di esortare all’azione e stimolare il desiderio di sormontare le proprie piccole grettezze nel senso di cui dicevamo.

Nemmeno a dirlo il Chanda fa parte del drum set di Zakir Hussain, così come la Kanjira, un piccolo tamburello in pelle di coccodrillo dal suono particolarissimo, e il Madal nepalese. Naturalmente a farla da padrone durante le esibizioni dal vivo sono le Tablas con i loro suoni scuri, secchi o chiari che a volte regalano sonorità liquide e fluide come quelle della risacca sul bagnasciuga o di un grossa pietra gettata in acqua.

Chi ha osservato per bene le pelli colpite e sfregate dalle dita sapienti del percussionista avrà notato che i potenti polpastrelli percuotono una circonferenza più scura posta al centro mentre il palmo s’appoggia e si fa forza sul bordo dello strumento o sulla parte superiore più chiara. Quel cerchio nero si chiama Syahi ed è composto di un amalgama di riso bollito, polvere di manganese e limatura di ferro. Le Tablas devono proprio a questa pasta scura il loro suono così indefinibile e meraviglioso.

Tre elementi così diversi concorrono a creare una musica meravigliosa che è un inno d’amore e di pace tra le culture. Proprio questo è il significato della musica del Cross Currents Trio; continuando nella bizzarra allegoria potremmo facilmente sostenere che i ritmi esotici di Hussain per la musica del gruppo sono essenziali come il manganese per il corretto funzionamento del nostro organismo e per l’equilibrata funzionalità mentale e cognitiva. L’effetto delle corde pizzicate del contrabbasso di Holland è assimilabile a quello della limatura di ferro usata nel giardinaggio per regalare magnifiche tonalità di blu (Blues) ai fiori. Solo per associazione di idee, si pensi al romanzo Les fleurs bleues di Raymond Queneau e alla sua importanza per l’interpretazione del linguaggio, anche musicale, e la feconda contaminazione culturale nel nostro tempo.

Infine, il soffio vivo e vitale di Potter è di certo confrontabile con quella funzione simbolica che viene tradizionalmente attribuita al cereale più diffuso al mondo. Non c’è bisogno di ricordare che il riso nutre gran parte della popolazione del pianeta e che anche in Occidente è simbolo di prosperità, fecondità e fertilità tanto che lo si lancia agli sposi per augurare loro abbondanza e un futuro felice.

Potranno sembrare solamente forzature e sofismi da letterato ma quando ci si trova davanti a musicisti di questo calibro e levatura non si può pensare alla musica che eseguono solamente in termini di tecnica o di virtuosismo. Il senso delle loro esibizioni va cercato altrove. Basta solo dare un’occhiata alla scaletta dei brani eseguiti tutti tratti dal loro ultimo lavoro.

Suvarna indica la celebrazione che tra musicisti gli allievi fanno ai loro maestri; è un segno di ringraziamento e devozione verso chi ha trasmesso loro sapienza e arte; Bedouin Trail racconta di un beduino e del suo girovagare nel deserto che è prima di tutto un viaggio interiore. Sempre relativo ad un viaggio esotico e fantastico è Island feelings. Così come J Bahi, dedicato all’amico Mahavishnu John McLaughlin esibitosi anch’esso al festival di Cormòns, che è un’esplorazione sonora di uno spazio indeterminato nel quale sembriamo sospesi e fluttuanti. Ziandi, allude ad una visione più alta e spirituale della vita, così come Mazad è una riflessione sia sul mondo sovrasensibile, sia su quello sensibile.

Dopo tutto questo forse sarà più chiaro cosa intende il Cross Currents trio per Good Hope: prima di tutto riconciliazione con se stessi e nel contempo apertura verso gli altri. La buona speranza è quella che si capisca finalmente che solo insieme, ognuno con le proprie culture, differenze e particolarità, possiamo dare un senso alla nostra esistenza e prosperare nella felicità dei colori, della musica e della pace.

Conosciuti loro pensieri, disse loro: Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto; ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere”. (Matteo 12:25)

United we stand, divided we fall”.

© Flaviano Bosco per instArt

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