Un titolo, mille interpretazioni. Le scintille sono quelle di Lucia, donna entusiasta che vede nella vita solo belle opportunità; o quelle di Dora, scintillante di una reazionaria voglia di protesta per una vita migliore; o ancora, quelle che tristemente daranno origine al fuoco e alla tragedia. D’altronde quasi ogni aspetto di “Scintille” ha il pregio di poter trovare una moltitudine di declinazioni, significati, sensi. Non stupisce quindi che il testo di Laura Sicignano (anche regista) con protagonista Laura Curino abbia ottenuto diversi premi e un enorme successo nazionale e internazionale sin dal suo debutto, nel 2012: oltre a lunghe torunee italiane è stato rappresentato anche in Francia e a New York (teatro delle vicende narrate, come vedremo).

“Scintille” è un atto unico che in poco più di un’ora riesce a riassumere con estrema efficacia un tragico episodio di cronaca di inizio del secolo scorso: l’incendio che il 25 marzo 1911 divampò nell’edificio della Triangle Waistshirt Company e che a causa delle condizioni di lavoro disumane imposte alle 600 camiciaie che lì lavoravano (come le porte dell’edificio sprangate dall’esterno per non fare uscire le lavoratrici nemmeno un minuto prima dell’orario di chiusura) non permise loro di fuggire in tempo, costando la vita a ben 146 di loro. L’impostazione data allo spettacolo non è però quella tipica del teatro di indagine e denuncia, con una visione esterna dei fatti ed una parallela analisi; i fatti vengono invece ricordati dalla prospettiva di chi li ha vissuti, tramite gli occhi di tre donne dello stesso nucleo familiare: la madre Caterina e le due figlie Lucia e Rosa, giunte da poco a New York dall’Italia assieme al marito/padre, molto diverse nel carattere ma alla fine tutte costrette a lavorare nella camiceria per poter far fronte alle spese quotidiane.

È proprio la diversità di carattere tra le tre (a cui si aggiungerà poi Dora, collega e amica di Lucia) a donare alla rappresentazione profondità e complessità: nonostante si tratti innegabilmente di un atto di denuncia dei soprusi sul lavoro, le interazioni tra i quattro punti di vista (a volte diametralmente opposti) mettono continuamente in gioco il “giusto” e lo “sbagliato”, dando interpretazioni, visioni (e colpe) diverse anche in una vicenda in cui dovrebbe essere chiaro a tutti chi è la vittima e chi il carnefice. Ma non è forse così la vita reale? Facile da valutare e giudicare finché guardiamo dal di fuori ma difficile da interpretare quando ne siamo immersi.

Caterina ad esempio, ancora così ancorata alla vita di paese -forse povera ma almeno tranquilla- biasima il marito per l’emigrazione familiare, adora (e spesso giustifica) la figlia minore Rosa che vede come buon esempio di come una donna debba essere e critica -a volte duramente- Lucia, così piena di vita, indipendente, sulla via dell’emancipazione. Lucia pare essere quella che guarda con gli occhi più lucidi la situazione, da un lato ammaliata dalla vita newyorkese ma dall’altro sempre più cosciente delle condizioni pietose in cui si trova a lavorare. Aiutata in questo da Dora, giovane ragazza russa quasi reazionaria e molto vicina ai sindacati che stanno cercando di battersi per delle migliori condizioni lavorative. Rosa infine, forse anche a causa della giovanissima età (14 anni) è sempre in bilico tra rassegnazione e sottomissione, pronta ad accettare quasi con gratitudine quel lavoro così opprimente (“grazie a cui almeno viviamo”) e convinta che a dei miserabili come loro non spetti nulla di più: spetta a quelli “più studiati” cambiare le cose, non a loro.

A dare voce a tutte le protagoniste, sul palco la sola Laura Curino: fra le maggiori interpreti del teatro di narrazione, in “Scintille” da ulteriore prova di tutte le sue straordinarie capacità interpretative, riuscendo a rendere in maniera chiara tutti i personaggi. Pur senza cambi d’abito o di luci: bastano diverse intonazioni di voce e posture per tratteggiare chiaramente ognuna di loro, in scene (come quelle dei dialoghi tra due o anche tre delle donne) che necessitano cambi continui, a ogni frase. Se non bastasse la bravura della Curino in questo atto di trasformismo, aggiungiamo anche che la sua interpretazione riesce a rendere tutte le protagoniste molto umane, quindi con tutti i loro pregi e difetti: se inizialmente si prova principalmente pietà per Rosa e la sua arrendevolezza, questa si mescola alla rabbia quando si scopre la sua tresca (consensuale o subita?) con uno dei capi o il suo aver fatto la spia alla madre in merito alla partecipazione di Lucia a una riunione dei sindacati. O ancora, se Lucia sa all’inizio accendere la speranza in platea, in seguito questa inizia a lasciare il posto alla preoccupazione e al biasimo (per quella che da esuberanza pare tramutarsi quasi in incoscienza).

Se tutta la prima parte permette di indagare la psicologia delle protagoniste e delineare le condizioni quasi da schiave in cui erano costrette a lavorare, la seconda metà si concentra sui tragici eventi di quel 25 marzo. E lo fa in un modo che riesce ad essere contemporaneamente lento e pieno di ritmo. Può sembrare un controsenso, certo, per cui cercheremo di spiegarlo meglio. Lento perché dilata i tempi della tragedia, che nella realtà si consumò in appena 18 minuti dalla prima “scintilla” che innescò il fuoco ma che sul palco ne occupa molti di più. Anche a causa del continuo passaggio di testimone della prima persona tra le tre donne, che porta in alcuni casi a raccontare più volte gli stessi istanti ma da punti di vista diversi. Il racconto avviene inoltre sempre attraverso gesti lenti, mai concitati: le porte chiuse dall’esterno, le finestre che esplodono, il montacarichi che cede e si schianta al suolo, le scale antincendio esterne che non reggono al peso di tutte le donne e cedono a loro volta, le operaie disperate che -piuttosto che morire tra le fiamme- si gettano dalle finestre schiantandosi al suolo.

Eppure è una lentezza che riesce a costruire momento dopo momento un’incredibile tensione e che nella dilatazione degli istanti più tragici sublima il vero e proprio caos regnato in quei minuti, passati vedendo tessuti, macchinari e altre persone inglobati dalle fiamme. Una dicotomia, quella tra lentezza e tragicità, che accompagna le protagoniste fino alle fine: Rosa che -sempre rassegnata e prona al non far parte della vita vera- sente nel suo volo dalla finestra, avvolta dalle fiamme, di essere per la prima volta protagonista, mentre tutti la guardano cadere per dei momenti che sembrano eterni. E Lucia, che ormai schiantatasi a terra e in quello strano dormiveglia prossimo alla morte, continua a sentire attorno a sé lo stesso rumore ripetuto più e più volte, come il battito sordo di un cuore che si sta spegnendo: “un tonfo, un morto… un tonfo, un morto”.

A dimostrazione della sottile crudeltà della vita, della famiglia sarà la sola Caterina a sopravvivere, salvata assieme alle altre donne salite sul tetto da degli studenti che sono riusciti a gettare una scala dall’edificio accanto. Sono sue le ultime amarissime battute dello spettacolo: quelle di una madre divisa tra il giusto lutto per le figlie scomparse, l’amarezza per la “giustizia” dei tribunali (tutti i capi della ditta giudicati innocenti, con in più più di 400$ di rimborso per ogni operaia morta, mentre alle famiglie delle defunte solo 75$ per ciascuna) e soprattutto il senso di colpa per non essere stata in grado di salvare le proprie figlie, per essersele dimenticate -anche se solo un per un minuto, dimostratosi fatale- nella concitazione di quei momenti.

È alla fine quindi che si svela il pregio forse più grande di “Scintille”: quello di essere teatro di cronaca e del ricordo, un atto d’accusa nei confronti di un problema (quello delle condizioni dei lavoratori) che purtroppo anche ai nostri tempi è presente, ma essere allo stesso tempo capace di mostrare il lato umano -emozionale ma anche fallace- della vita e della tragedia. E di saper miscelare così bene questi due ingredienti da lasciare il groppo in gola e gli occhi lucidi.

Luca Valenta / ©Instart

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