James Francies è un giovanissimo pianista di Houston, classe 1995, straordinariamente dotato anche alle tastiere elettroniche, con una carriera nel jazz di tutto rispetto. Sul palcoscenico non passa di certo inosservato, sembra un atleta di football americano con i suoi abbondanti 190 centimetri d’altezza e il fisico scultoreo da potente e veloce quarterback. Si è presentato sul palco del Volo del Jazz al Teatro Zancanaro di Sacile (PN) con un’aderente maglietta del supereroe nero Black Panther ed è stato già “tutto un programma”.

Eric Harland, batterista geometrico eppure indiavolato, ha una discografia impressionante sia come solista che come componente di combos, collettivi di musicisti e ancora come compositore di colonne sonore. Le incisioni documentano la sua militanza come membro stabile negli ensemble di McCoy Tyner, Charles Lloyd, Ravi Coltrane, Terence Blanchard, Dave Holland, Joshua Redman, Kurt Rosenwinkel e molti altri, come dire il gotha mondiale del jazz contemporaneo, non serve aggiungere molto altro.

Poche chiacchiere, Chris Potter è il sassofonista più versatile, creativo e allo stesso tempo rigoroso e classico della scena jazz internazionale. Non è nemmeno il caso di citare il suo curriculum che fa tremare le vene e i polsi per l’importanza e la qualità assoluta delle collaborazioni e delle composizioni. Per quanto riguarda questa suo nuovo progetto in trio basterà citare le sue parole che hanno accompagnato l’uscita dell’album il 22 febbraio 2019:

È un’idea che mi accompagnava da tempo. Avevo una gran voglia di ritrovare lo spirito del groove più autentico e ne parlavo sempre con Eric Harland. Abbiamo lavorato insieme per molti anni e lui mi ha raccomandato James Francies che non conoscevo e tutto ha immediatamente cominciato ad andare per il verso giusto. Questo album significa un cambiamento di rotta per la mia musica, così mi sento molto fortunato ad avere al mio fianco energie fresche…La chimica tra noi è stata quella giusta. Puoi immaginarti di tutto, puoi scriverlo ma è solo quando stai davvero suonando che sai se funziona”.

I tanti fortunati dello Zancanaro hanno sentito con i propri occhi e visto con le proprie orecchie quanto funziona il trio in un concerto che è stato un vero e proprio cortocircuito tra classicità e innovazione elettronica, tra ritmi delle origini e beats digitali, la supernova di un universo sonoro che da Congo Square, New Orleans traguardava le metropoli del terzo millennio.

Prima di procedere in ogni caso, è necessario fare un ringraziamento all’Associazione Controtempo che nel breve volgere di qualche settimana, in due manifestazioni consecutive, ha regalato agli appassionati, le esibizioni di Chris Potter sia nella versione di side man del trio di Dave Holland/Zakir Hussain, sia in quella di band leader con uno dei propri progetti musicali più innovativi. Sono occasioni rare che permettono di vedere e riconoscere l’autentico genio all’opera e Potter si è dimostrato all’altezza della propria immensa fama in entrambe le occasioni.

Molto apprezzabile anche il meraviglioso interplay con gli altri due musicisti, dopo aver suggerito il tema con le solite semplici frasi del suo sax soprano o tenore, si defilava lasciando in primo piano la batteria e le tastiere a fronteggiarsi in un vero e proprio contest in cui uno inseguiva l’altro in un continuo sovrapporsi di linee melodiche e ritmiche.

Francies sa essere molto gentile e iper-virtuosistico con le sue tastiere ma anche irruento e frenetico. In alcuni momenti, con gli effetti elettronici sostituiva le parti di basso che pur essendo presenti nell’incisione dell’album “Circuits” a cura del bassista Linley Marthe non c’erano allo Zancanaro. Certo, l’attacco sonoro era un po’ duro per gli amanti del Jazz più tradizionale, ammesso che sia ancora il caso di parlarne, ma senza alcun dubbio di grande fascino per chi si sta ancora ingenuamente chiedendo: “Quale sarà la forma del Jazz a venire? The shape of Jazz to come”. Il difetto maggiore del pianista è forse la sua irrefrenabile volontà di interagire con gli altri, scatenando un’esuberante vitalità che a volte appare eccessiva.

Senza grandi scossoni la prestazione del batterista Harland con il suo drumming quadrato e tutto sommato mainstream. Questo non vuol dire di certo, disprezzabile, anzi il contrario. Lo stile dei batteristi contemporanei tende ad essere piuttosto massificato e privo dell’energia fisica e spirituale necessaria, limitandosi ad essere tecnico e stilisticamente perfetto e senza sfumature.

Harland, deve essere, davvero, fiero di far parte a se stesso nel panorama dei batteristi che contano con la sua semplice, solida presenza che gli permette intelligentemente di condurre l’uditorio alle soglie del ritmo per poi lasciarlo libero di fare dentro e fuori da quei territori dell’immaginazione. È una dote non troppo comune tra i percussionisti.

A parole, molti di loro riconoscono che le pelli e tutto il resto non sono una strana evoluzione del metronomo e che la meccanica riproposizione di una battuta, pur essendo essenziale, spesso toglie sentimento all’accompagnamento ritmico. Come recitava il titolo di un’opera di Duke Ellington: “Drum is a woman”, alludendo chiaramente alla sua sensibilità e delicatezza e alla necessità di esprimere sentimento anche “carezzando” quello strumento. Come si accennava più sopra, percuotere le pelli non significa picchiarle con tutta la forza che si ha in corpo fino a tramutare la propria parte in quella di un meccanico alla catena di montaggio con tutto il rispetto per la categoria. Significa trovare la giusta direzione, condurre i suggerimenti armonici degli altri musicisti lungo i sentieri del ritmo senza mai perdere l’orientamento, contribuendo a costruire l’equilibrio necessario tra tempo e misura che è da sempre il mistero e la magia di ogni ritmica efficace. Harland fa di certo parte di quella non folta schiera di batteristi che sa imporsi grazie alla sua eleganza e ad uno stile del tutto personale fatto di precisione e al contempo di una tecnica spericolata. Non è un caso se affianca i sassofoni di Potter.

Il band leader del Circuits Trio, lo si è già detto, emerge con il suo sound proprio perchè sa calibrare la sua irruenza, gestendo con grande abilità e perfino con modestia le sue doti tecniche di assoluto rilievo. Ascoltarlo, in quest’ultimo progetto che scava nei ritmi ancestrali della musica africana fino al tribalismo, stupisce proprio per il suo equilibrio e per la maestria con la quale riesce a districarsi anche nei passaggi più intricati ed impervi. Il suo fraseggio sembra sempre impegnato nel raccontarci una storia “semplice” e quasi familiare che poi finisce sempre per complicarsi nella “distanza” e nei colori di altri mondi che si vengono via via a scoprire. Così quasi senza soluzione di continuità, ascoltandolo ci si trova a scivolare da un tema classico, tutto sommato, nemmeno troppo complicato, in un’improvvisazione spaesante e sfrenata che non sembra quasi uscire dallo stesso strumento. In perfetta simbiosi con i suoi compagni di viaggio, Potter contribuisce a costruire trame sonore davvero inaudite che riportano il jazz sulle rotte del Golfo di Guinea senza però dimenticare mai il significato e la storia della musica afroamericana che non sarebbe stata pensabile al di fuori degli Stati Uniti.

Se ne ricordano bene i componenti del Cicuits Trio, ognuno a proprio modo ci fanno capire che il jazz non è mai stato solo un viaggio esotico tra ritmi e colori ma come diceva John Coltrane:

Jazz…if you want to call it that, to me, is an expression of heigher ideals. So, therefore brotherhood is there and I belive with brotherhood there would be no poverty. And so with brotherhood, there would be no war”(Frank Kofsky, 1970, pag.227)

Che cos’è il Jazz? È fratellanza, uguaglianza e libertà, contro la povertà e la guerra. Se lo diceva Coltrane possiamo crederci anche noi.

© Flaviano Bosco per instArt

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