Dopo una gestazione piuttosto difficile, tra restrizioni dovute alla pandemia (casting e prove sono state tutte effettuate negli anni del Covid) e la conseguente ripresa a singhiozzo delle attività nei teatri in cui per diversi mesi il musical non trovava spazio, “Casanova Opera Pop” -ultima fatica produttiva della famiglia Canzian, con Red come compositore delle musiche- ha saputo trovare finalmente il suo spazio, e da Novembre scorso è stabilmente nei cartelloni dei maggiori teatri italiani, per un tour italiano che conta più di venti città toccate in cinque mesi e con piani già concreti per venire esportato anche all’estero.

All’interno del tour non poteva mancare il Politeama Rossetti, che ospita lo spettacolo in questi giorni e che ha avuto anche l’onore ieri, nella serata della “prima”, di essere la sede delle registrazioni per il DVD del musical. E dopo la bella presentazione di qualche giorno fa, con Red Canzian e parte del cast a disposizione del pubblico per raccontare spettacolo, aneddoti di produzione e rispondere a domande e curiosità, non si può negare che l’attesa fosse tanta.

Al di là delle impressioni di una conferenza stampa, a creare aspettative piuttosto alte su “Casanova Opera Pop” è anche il suo venire presentato come un kolossal. Non una dichiarazione da poco, perché per fare un kolossal serve tutta una serie di elementi affinati alla perfezione e ben incastrati tra loro, un ingranaggio in cui nessuna ruota può permettersi di rallentare o avere tentennamenti, pena il disequilibrio di tutto il marchingegno. E da questo punto di vista “Casanova” purtroppo non soddisfa pienamente la definizione.

Per chiarire subito: è un musical molto godibile con tantissimi punti di forza, primo di tutti la messa in scena; ma che mostra non poco il fianco a perplessità quando si arriva a trama e personaggi.

Ma partiamo dalle note positive: la messa in scena, si diceva. Da questo punto di vista ogni cosa funziona, e molto bene. Tutto ciò che accade sul palco è una gioia per gli occhi: i costumi sono sontuosi; le scenografie molto efficaci e funzionali nel loro essere contemporaneamente elaborate e poco invasive; le proiezioni sullo sfondo (elemento sempre a forte rischio di risultare sterile e artificioso) sanno dare il giusto tocco di contestualizzazione alle scene; le luci sanno sottolineare sempre bene i momenti e gli angoli di palco importanti. Menzione particolare per le coreografie, soprattutto nei balli di gruppo: rutilanti, coinvolgenti e con delle soluzioni sempre originali e innovative. Si pensi ad esempio alla scena del carnevale, con ogni ballerino a portare con sé due sagome di cartone a indicare l’incredibile ressa della festa; o la labirintica fuga di Casanova e Francesca dalla festa, con i movimenti di siepi e ballerini (e le piccole gag tra una siepe e l’altra) orchestrati davvero alla perfezione e dall’effetto esilarante. A perfetta dimostrazione di come non servano per forza idee machiavelliche per trasmettere sensazioni ed emozioni ma bastino idee semplici nel posto giusto, al momento giusto, dosate nella giusta quantità.

Passando alla colonna sonora -fattore fondamentale in un musical- i brani risultano quasi sempre orecchiabili e presentano arrangiamenti ricchi e interessanti, con solo qualche battuta d’arresto in alcuni pezzi arrangiati in maniera davvero troppo, troppo “moderna” rispetto agli altri. Per essere più chiari, un po’ come andando a una serata musicale a tema -ad esempio jazz- e ogni tanto ritrovarsi nella playlist un brano di tutt’altro genere -sempre per rimanere negli esempi, discomusic. La mancanza più grande è però quella di momenti che spicchino all’interno delle due ore di musica, di brani che diventino immediatamente riconoscibili trasformandosi in veri e propri anthem che da soli facciano pensare allo spettacolo (solo per continuare con gli esempi, si pensi a “Memory” in Cats). Non aiutano alcune soluzioni adottate, come i cori preregistrati o la ripetizione in diverse occasioni di alcuni temi -come il “voglio non voglio” di Francesca o la dichiarazione d’amore che Casanova ripete a diverse donne nel primo atto- che finiscono per diventare ridondanti sia per il numero di ripetizioni che per il non avere grosse variazioni ad ogni riproposizione.

Il problema principale dello spettacolo sta però in un altro fattore: la trama. L’ossatura della storia riprende il romanzo “Giacomo Casanova. La sonata dei cuori infranti” di Matteo Strukul, che già portava con sé alcune criticità come la figura stessa di Casanova (su cui torneremo tra un attimo); ma nel necessario tagliare ed adattare per portare un’opera scritta su un palco peggiora le cose, finendo per eliminare motivazioni e vissuti dei personaggi e trasformando spesso le azioni sul palco in qualcosa di “finto” e pretestuoso, fatto solo per mandare avanti la storia.

Partiamo dal personaggio di Casanova: Gian Marco Schiaretti si dimostra un talento vero, con un “phisique du role” incredibile e una voce potente e duttile che non mostra mai tentennamenti e punti deboli. Ma è proprio questo suo essere il Casanova perfetto (cioè come tutti noi potremmo immaginare questa figura così affascinante) a essere al contempo la sua più grande maledizione: complice una sceneggiatura che vuole a tutti i costi mostrare il protagonista come coacervo di tutte le qualità umane, il forte rischio è quello di farlo risultare antipatico e di non empatizzare con lui. Questo Casanova soffre della più classica “sindrome dell’eroe scritto da un bambino”: invincibile, invulnerabile, senza punti deboli, bello, bravo a fare qualsiasi cosa, senza mai un sussulto o un dubbio. Eppure gli spunti c’erano: l’uccisione accidentale di Alvise durante un duello avrebbe potuto mostrare molti lati più fragili di un uomo che è sì un po’ mascalzone e un po’ sornione ma non un assassino. Invece tutto viene risolto in un singolo brano in cui Casanova mostra il suo senso di colpa, poi basta, tutto scomparso dalla sua anima. Nemmeno quando più tardi l’amata Francesca gli dirà che il suo promesso sposo (Alvise, appunto) non si fa più vedere da giorni. Lo stesso innamoramento per Francesca avrebbe potuto mostrare lo scardinamento di tutto ciò che Casanova crede di essere (gigolò incallito capace di sedurre chiunque ma senza mai farsi coinvolgere) ma anche qui niente, tutto viene risolto nell’arco di un brano. Per il resto Casanova mostra solo sicurezza di sé: sa di vincere il duello con Alvise, quando viene inseguito sa che riuscirà a scappare, quando si scontra con Zago sa che sarà in grado di sparare prima dell’avversario.

Ad esasperare questa sensazione è anche la caratterizzazione davvero poco approfondita di molti comprimari, e l’esempio più eclatante è Francesca Erizzo, la donna di cui Casanova si innamora per davvero. Di lei non veniamo mai a sapere nulla se non che è innamorata perdutamente di lui: nessuna storia, nessuna informazione se non un fugace “mio padre vuole che sposi Alvise ma io non voglio”. Emblematico il brano che funge da suo leit-motiv e che canteròà diverse volte: nei musical i personaggi principali vengono definiti attraverso la cosiddetta “ ‘I want’ song”, ossia una canzone che esprima le loro motivazioni e desideri; ebbene, quella di Francesca non dice nulla di lei come persona ma solo il fatto di voler amare Casanova ed essere amata da lui. Insomma, tutta la sua caratterizzazione è data in base non a ciò che è ma a ciò che prova per il protagonista.

Discorso migliore per gli antagonisti: sia l’Inquisitore che la Contessa hanno maggior spessore e se non altro hanno lo spazio per esprimere le motivazioni che li portano a tramare contro Casanova e Venezia. Peccato che tutto ciò che di buono viene costruito su di loro venga “chiuso” in maniera molto sbrigativa, soprattutto con l’Inquisitore, fatto uscire di scena in maniera frettolosa e insoddisfacente.

Torniamo quindi al problema della trama: fino a oltre metà spettacolo non sembra esserci una vera storia se non “Casanova fa innamorare di sé tutte le donne e poi per la prima volta si innamora per davvero”, e la cosa viene ribadita più e più volte sia con serenate varie fatte da qualunque essere femminile nei confronti del protagonista, sia con i continui baci in scena tra Casanova e Francesca, così tanto presenti da occupare un minutaggio davvero considerevole se sommati tutti assieme. Solo nella parte finale del musical si affaccia l’intreccio politico, con le macchinazioni dei due “villain” e la trasformazione di Casanova in eroe di Venezia: ma è tutto troppo veloce e lascia la sensazione che quel che accade lo fa non perché sia logico ma solo perché è stato deciso così, e perché ormai non c’era più tempo per descriverlo meglio.

Cercando di tirare le somme: “Casanova Opera Pop” è un brutto spettacolo? Assolutamente no. Ha tanti lati positivi e trasuda da ogni poro l’amore, l’impegno e l’attenzione che sono stati profusi nel produrlo. Si vede che è servito davvero tanto lavoro per portarlo in scena. Ma soffre il fatto di poggiare su delle fondamenta (perché tali sono trama, copione, storia) traballanti e poco convincenti. Ed è un peccato perché tutta l’impalcatura (tecnica, visiva, musicale) eretta sopra tali fondamenta avrebbe meritato una base più solida su cui poggiare, per poter splendere ancora di più e poter essere goduta appieno, come merita.

Luca Valenta /©Instart

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