Qualcosa in comune gli Almamegretta ed il festival Blessound forse ce l’hanno: entrambi sono riemersi quest’anno nel post (ma è veramente post?) Covid dal 2019. In quell’anno infatti la band napoletana licenziava In Spiritus Dub, riaffermando il proprio ruolo nel panorama nazionale e non, mentre la rassegna di Blessano registrava la sua ultima edizione. Cosa c’era di più adeguato di inaugurare l’edizione 2022 con la band di Raiz e soci, impegnata nel tour di presentazione del nuovo Senghe? Dalla “fessura” (questo è il significato del titolo in slang partenopeo) si possono ascoltare undici nuovi brani, confezionati assieme al “nostro” Paolo Baldini ( B.R. Stylers, Dubfiles, Africa Unite e molto altro) bassista, dubmaster ed ormai eminenza grigia del dub internazionale, il quale sembra aver apportato nuova linfa ed energia alla band napoletana. Gli Almamegretta hanno assemblato un mosaico di suoni e di lingue (italiano, napoletano, inglese ed ebraico) mantenendo in contemporanea sia la radice dub che quella pop. Non siamo ai livelli degli esordi, in particolare del masterpiece Sanacore (pietra angolare di dub, elettronica e spirito mediterraneo), ma il gruppo artisticamente gode di buona salute. Ma non sarebbe giusto fermarsi agli headliners per descrivere la serata di venerdì 26 agosto del Blessound, visto l’aperitivo sonoro approntato, a base di giovani leve della musica italiana. Un plauso quindo a coloro i quali, come gli organizzatori di Blessano, danno visibilità a realtà musicali altrimenti trascurate dai grandi circuiti. Ottima anche la scelta di scegliere artisti portatori di proposte musicali attuali e vicine ad un pubblico giovane. Tra questi c’è caspio (in minuscolo ribadisce l’interessato) che, accompagnato da KALPA ( in maiuscolo) a tastiere/campionamenti/tamburi, riveste il vecchio e nuovo repertorio di una patina più discreta e soffusa: la melodia italian-pop si adagia su arrangiamenti delicati che talvolta evolvono in una esplosione percussiva. Il compito del cantante triestino di adozione non era facile, visto che la sua esibizione è avvenuta sul palco secondario, dove accanto ai fan erano presenti famiglie intente a degustare le pietanze preparate nei chioschi attigui. Il tutto è stato comunque piacevole e non ha guastato l’atmosfera di sagra che si respirava in prima serata. Sul main stage del tendone si è esibita Irene Ciol aka Ceneri, from Casarsa della Delizia, che, accompagnata da un giovane chitarrista, ha fornito una prestazione più convincente che in studio, visto che in un abito più intimo le canzoni hanno perso la leziosità di certi arrangiamenti a favore di un’atmosfera più crepuscolare e intensa. Peccato per l’acustica che ha penalizzato un po’ il set. Dopo tanto pop un po’ di atmosfera urbana: Deriansky, rapper emiliano dedito a sonorità a base di dubstep, elettronica dura, ritmi serrati, abbinate a testi intrisi di disagio che parlano di realtà scomode spesso rimosse. Il tutto, nel palco secondario, accompagnato da video sparati alla velocità dei beat usciti dalle casse acustiche. I commensali non hanno gradito molto, ma la proposta sonora è stata molto interessante. In definitiva, al netto di ingenuità e particolari da limare, per la sezione “nuove proposte” definiremmo caspio avvolgente, Ceneri emozionale e Deriansky viscerale. Saranno famosi? Passando a chi abbastanza famoso lo è, l’inconfondibile suono del basso dub introduce ed accompagna l’inizio della performance degli Almamegretta. Make it work e Water Di Garden da Senghe danno inizio al set del gruppo partenopeo evidenziando le caratteristiche del concerto: il suono di brani vecchi e nuovi è compatto e granitico e basato sul basso martellante ed ipnotico di Baldini, assecondato dalla batteria metronomica di Gennaro Tesone, mentre le tastiere di Paolo Polcari, vista l’assenza della chitarra, si occupano della tessitura melodica, riducendo al minimo, complice l’acustica non proprio perfetta del tendone, gli effetti di delay/echo. Su tutto troneggia la voce e la figura di Raiz, travolgente nei brani veloci e avvolgente in quelli più melodici. Del nuovo disco il gruppo ha proposto, tra le altre, l’intensa Figlio, dove il cantante ha dato il meglio di sé, ma sono i primi due album a farla da padroni, tralasciando le svolte techno dub e di recupero di radici napoletane ad essi successive. È da Sanacore che arrivano infatti le vette del concerto a partire da Ruanda: giro di basso e batteria killer ad introdurre il coro, campionato, dei bambini africani, sui quali poi si innesta il cantato di Raiz. Un vero capolavoro che unisce Adrian Sherwood, il Brian Eno quartomondista e l’Africa profonda e che dal vivo ha trascinato un pubblico già sedotto dal sound del gruppo. Dal medesimo album Pé Dint’ ‘E Viche Addò Nun Trase ‘O Mare, Sanacore, O Sciore Cchiù Felice e Maje, trasportano la melodia napoletana in mezzo ai sound system giamaicani. Il pubblico ondeggia entusiasta e si fa ammaliare dalla magia di Se Stuta ‘O Ffuoco, uno dei migliori brani del repertorio della band. Quando poi per il richiestissimo (e lungo) bis si sentono le prime note di Figli di Annibale, l’atmosfera si fa torrida. Il brano, in mancanza del contrappunto chitarristico, è stato accentuato nella componente ritmica ed inframmezzato da War di Bob Marley. L’effetto è stato dirompente ed ha mandato ulteriormente il pubblico in visibilio. Idem Fattallà, come il precedente dall’album di esordio, brano cantato con travolgente energia in medley con la parimenti trascinante Suddd. A degna conclusione del concerto Nun Te Scurda, una melodia che non esce dalla testa e forse un velato consiglio a non dimenticarci di questo gruppo, che da tre decenni tiene alto il vessillo del Dubb.

Daniele Paolitti – instArt 2022 ©

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