Filippo Ieraci è un ottimo, giovane chitarrista con un’attività di concerti molto sostenuta e una nutrita serie di collaborazioni con altri musicisti, tra questi, una particolare sintonia con il contrabbassista Eugenio Dreas ha fruttato un progetto “Cucumber Green” che recentemente si è realizzato in un primo EP di gradevolissimo ascolto che, è facile immaginarlo, sarà il primo di una serie, viste le potenzialità espresse dal duo in questi primi brani che ci apprestiamo a introdurre.

Certo descrivere la musica non è lo stesso che abbandonarsi all’ascolto, ma qualche indicazione a volte può servire per comprendere meglio certe atmosfere, facendoci notare tutte quelle sfumature che altrimenti rischieremmo di perdere nell’insieme dell’affresco di accordi e armonizzazioni.

Prima di farlo però sarà il caso di aprirsi ad alcune “divagazioni” per comprendere al meglio da dove provengono le suggestioni che si sono fatte musica in questa incisione.

I due musicisti hanno evidentemente una passione per le atmosfere della psichedelia di fine anni ‘60 con tutte le implicazioni culturali ed artistiche di quel movimento che aveva le proprie radici nella Beat Generation di Burroughs e di Ginsberg.

In quell’orizzonte spiccano le opere di Richard Brautigan e tra queste “Zucchero di cocomero” (Watermelon Sugar) ideale prosecuzione del classico “Pesca alla trota in America” (Trout Fishing in America). Vi si racconta, con visionario surrealismo, della vita e delle strampalate avventure di una bucolica comune immersa nella natura e nell’utopia dei propri bizzarri sogni.

Tutti gli oggetti e le cose di quel mondo immaginario sono composti a partire da una sostanza zuccherina tratta dai cocomeri di vari tipi e colori coltivati in base alle diverse gradazioni dei colori del sole che, di volta in volta, cambia la propria gamma cromatica. Un’allegra, prodigiosa, scatenata follia senza briglie né freni di alcuna sorta.

Che le cucurbitacee richiamino fantasie e bizzarre e strane non è neppure una novità, dalle zucche intagliate di Halloween alla carrozza di Cenerentola. Meno nota la simbologia cristiana che vede il cetriolo come simbolo della purezza e della feconda castità di Maria. Nei dipinti e nelle pale d’altare barocchi, l’ortaggio veniva sovente associato alla verginità della Madonna in un accostamento che la malizia e la dissacrazione del mondo moderno non riesce forse a comprendere.

Ma c’è di più, anche la realtà scientifica, vera o presunta, dimostra, se è possibile, di essere ancora più surreale. Il 14 giugno annualmente si celebra il “World Cucumber Day” che una nota marca di gin celebra in pompa magna. Nel 2021 presentò uno studio molto documentato che sembra proprio tratto da un romanzo di Brautigan.

Il famoso brand scozzese coinvolse l’australiano prof. Graham Brown, sedicente maggior esperto mondiale di cetrioli, in uno studio durato dieci anni che ha dimostrato che “i cetrioli che sono cresciuti ascoltando musica rock presentano dimensioni maggiori e un sapore migliore, forma cilindrica, senza curva, e una buccia liscia di colore verde scuro. Al contrario, quelli che sono cresciuti ascoltando musica jazz hanno mostrato di non apprezzare tale genere sviluppando malformazioni con estremità e curve appuntite”.

Non credono per niente a tutte queste fanfaluche Ieraci e Dreas che al “cetriolo verde” e alle sue seduzioni hanno dedicato i loro sforzi.

Non a caso l’EP si apre con il brano “Bridge Blues” evocativo e sagacemente acido che ricorda i momenti più acustici degli Hot Tuna, lo stellare duo formato da Jorma Kaukonen e da Jack Casady, colonne portanti dei Jefferson Airplane, tuttora in attività.

Il blues è materia sommamente complicata, per chi lo conosce senza amarlo può sembrare solamente una successione di insensati accordi claudicanti sempre uguali a se stessi con l’aggiunta occasionale di strani ululati e lamenti afroamericani.

Per tutti gli altri, è una luminosa sorgente di vita e di rigenerazione, è l’essenza stessa della musica, un misterioso baricentro del sentire e del cuore. Il blues non si ascolta, si “sente” e si “vive”, cercarlo per puro intrattenimento è possibile e comprensibile ma del tutto vano, a volte.

Si sbaglia di grosso anche chi crede che il blues sia solo istinto, genio e sregolatezza. L’aura da maudits che aleggia attorno alle biografie dei bluesman più famosi da Robert Johnson in poi è in generale piuttosto fasulla e scandalistica.

Certo la puzza di zolfo e l’ambiente luciferino o postribolare hanno contribuito parecchio alla sua fama, ma non bisogna mai dimenticare che ognuno di quei bizzarri pionieri della musica contemporanea è stato uno straordinario virtuoso del proprio strumento, sperimentando ed esercitandosi fino all’ossessione e a diventare egli stesso una specie di demone.

Nell’area del Delta del Mississippi, quella che viene definita “Cradle”, crogiuolo delle musiche afroamericane, i primi strumenti erano tradizionalmente auto-costruiti su rozzi modelli di lontana provenienza africana.

Primi fra tutti sicuramente le percussioni, tamburi a cornice, cilindrici e poi xilofoni di varia natura. Contemporaneamente i nuovi Griot afroamericani trasformarono il suono della Kora, il cordofono madre di tutta la musica, ibridandolo con gli strumenti consimili di tradizione ispanoamericana.

La chitarra fece presto a diventare la regina delle “Barrell house”, le baracche con alcool di contrabbando nelle quali si radunavano le persone di colore per divertirsi e “digerire” le infami giornate di lavoro. A fare la ritmica oltre alle percussioni, fondamentale uno strumento “panciuto” che all’inizio era costruito a partire da un bidone, un manico di scopa e una corda ricavata da una molla da materasso distesa, poi sostituito dal contrabbasso.

Il duo chitarra-contrabbasso, acustico o elettrico, richiama ancora oggi quelle pionieristiche esperienze e anche se, naturalmente, contesti sociali, tempi e situazioni sono del tutto mutati, le possibilità espressive e cromatiche del connubio di questi strumenti sono del tutto intatte e anzi le loro prospettive sono oggi forse d’orizzonte ancora più largo.

Filippo Ieraci, chitarrista di grande versatilità e dalla solida formazione, ne è ben consapevole così come il suo compagno d’avventura, Eugenio Dreas. Le cinque succose parti in cui è diviso il loro primo “cetriolo” lo dimostrano con grande gusto e intimo piacere.

La prima cosa che colpisce di questi brani è di certo la grana e la particolare cura con la quale sono stati registrati i brani. Potrebbe sembrare un tecnicismo da maniaci audiofili ma, in realtà, è tutt’altro. Nell’epoca della musica liquida nella quale la ricerca e la tecnologia ha reso i suoni fin troppo perfetti e minerali un suono più tradizionale e curato si fa notare eccome.

Acusticamente analogico nel più autentico dei significati si presenta il secondo brano “Cucumber Green” che da il titolo all’EP con i suoi suoni sospesi, gli spazi dilatati, le attese e le iniziali esitazioni lungo le corde tese delle tastiere, è un continuo sovrapporsi di una ritmica martellante, ossessiva e autentiche sciabolate melodiche chitarristiche che si risolvono nell’unisono di affascinanti refrain.

Ieraci ha un talento naturale che ha cominciato a coltivare fin da giovanissimo e sul quale ha lavorato di cesello il suo primo maestro Marko Čepak, le cui recenti avventure abbiamo documentato in una recensione su questo stesso magazine. Il chitarrista triestino ha proseguito gli studi affinandosi anche con artisti del calibro di Steve Swallow e John Stowell.

E’ evidente in composizioni come “Everflowing” nella quale il contrabbasso, inizialmente suonato ad archetto, accompagna gli erratici, riflessivi accordi della chitarra, in una meditazione in musica caratteristica degli stilemi del miglior jazz contemporaneo.

La multiforme creatività di Ieraci risalta di certo in bella evidenza in questo primo lavoro a suo nome, ma ci sono molte altre incisioni, che abbracciano i tanti generi e stili che padroneggia con grande ricercatezza di suoni e di effetti.

Attraverso quei solchi possiamo capire quanto sia eterogenea la sua ispirazione e articolato il suo percorso di autentico artista. In questo senso, risulta significativa e piacevolissima all’ascolto su disco ma soprattutto live, la sua avventura con la ciurma della North East Ska Jazz Orchestra con il suo “Magical Mistery tour” in giro per i palcoscenici d’Europa. Quella è musica per angeli caduti e ubriachi, divertimento puro, fuoco d’artificio.

Da segnalare, tra le numerose realizzazioni discografiche cui il chitarrista ha partecipato, almeno: “Six bones for Nino Rota” progetto del trombonista e compositore Max Ravanello dedicato alle musiche per il cinema dell’indimenticabile Maestro de La dolce vita. A quel sound, rivisitato in chiave jazzistica, Ieraci ha prestato gli accordi più dolci e intensi del suo strumento con rara sensibilità.

Tutta questa strada percorsa si sente nelle sue corde e sulla punta dei suoi polpastrelli. E’ un chitarrista raffinato che rende al meglio sia nei club più esclusivi, sia sui marciapiedi da vero artista di strada; è uno che può frequentare le aule dei conservatori e allo stesso modo i “peggiori bar di Caracas come diceva quell’alcolica pubblicità.

Non sono per nulla caratteri opposti, ma assolutamente complementari che si compenetrano, ce lo insegna proprio la storia della chitarra nella musica popolare contemporanea dal “diabolico” vagabondo Robert Johnson, allo zingaro Manuche Django Reinhard, passando dall’Afro-cheyenne Jimi Hendrix, l’alchimista Jimmy Page per arrivare a Mahavishnu John McLaughlin e tanti altri.

I due “cetrioli verdi” sanno anche essere dolcissimi e atmosferici come in “Mountain of Light” con l’assolo “cantato” di contrabbasso che si alterna a quello della chitarra che prima scandisce la ritmica in uno scambio evocativo e luminoso, dalle parti dei misteri più profondi.

La musica di Ieraci e Dreas è ricca di venature, screziata d’esperienza e di tanti concerti ed esibizioni live per “suonare, suonare…là dove c’è musica”, come diceva un vecchio brano della P.F.M. tanto per restare in tema di citazioni e di suggestioni musicali trasversali tra blues, jazz, rock, psichedellia e prog, di tutto un po’.

Perchè è proprio da quel mondo sospeso tra colori e suoni translucidi che sembra venire l’ispirazione del duo di “Cucumber Green” che per altro sa giocare anche con atmosfere vagamente caraibiche ed africane in una gioiosa ricerca di suoni, modalità e stati di coscienza.

Anche Eugenio Dreas può vantare numerose collaborazioni e incisioni tra le quali si segnalano quella con il talentuoso pianista udinese Emanuele Filippi ormai proiettato sulla scena internazionale. Non bisogna dimenticare che il suo contrabbasso affiancato alla batteria e alle percussioni del funambolico Marco D’Orlando, costituisce una delle migliori sezioni ritmiche in circolazione.

Il duo di “Cucumber Green”, in sintesi, fa parte di quel folto gruppo di giovani musicisti regionali che si stanno facendo notare a livello nazionale e oltre. La nostra regione, da Sacile a Trieste e da Tarvisio a Lignano, è sempre stata fucina di straordinari musicisti sia per quanto riguarda la tradizione musicale più popolare sia per quella contemporanea, dalle sperimentazioni d’avanguardia alla cosiddetta musica colta fino al jazz.

Se si guardano alle più recenti incisioni e ai tantissimi concerti anche di questi ultimi mesi, c’è da restare sbalorditi dal livello di preparazione e dal talento di tanti nostri musicisti di nuova generazione, che stanno tessendo una ricchissima scena musicale che non si rivolge solamente alla barbosa cerchia degli specialisti e degli appassionati, ma che è in grado di fare breccia anche in un pubblico molto più vasto.

Il progetto “Cucumber Green” di certo costituisce un tassello di questo splendido mosaico sonoro che gli artisti della nostra regione stanno mettendo insieme.

Chiude l’incisione “Plaster”, fra i cinque il brano forse più psichedelico; cantabile e divertente ha la solarità della West Coast e il sapore vellutato, inebriante e dolcemente rinfrescante di quel famoso gin di cui parlavamo che viene prodotto dalla distillazione di un infuso di cetriolo e petali di rosa.

Concludiamo con un pizzico di ironia ritornando al famoso studio del prof. Brown che, non contento di aver somministrato ai propri cetrioli musiche più o meno gradite, ha fatto ben altro: “Per eseguire il test finale i cetrioli sono stati avvolti in minuscoli sacchi a pelo per dare loro un maggiore senso di comfort e protezione e ciò ha consentito di ottenere una buccia più soffice e leggera e una polpa più dolce rispetto a quelli lasciati esposti senza protezione”.

Detto questo è evidente che i cetrioli hanno effetti psicotropi e psichedelici su chiunque vi si accosti; ecco spiegato un altro segreto di “Cucumber Green”, lo splendido lavoro di Ieraci e Dreas del quale è possibile perfino l’abuso senza alcuna controindicazione.

© Flaviano Bosco – instArt 2022

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