Sono stati eroici e testardi i “ragazzi” del Visionario a voler proiettare a tutti i costi in occasione del centenario felliniano, un grande capolavoro dell’arte italiana mentre saltano i cartelloni e si cancellano stagioni teatrali e rassegne cinematografiche per la psicosi da epidemia Covid 19 certificata a fil di decreto che tiene aperti i centri commerciali e i supermercati mentre chiude i teatri, i cinema e le scuole.

Il motto, non è una novità, “con la cultura non si mangia” sembra ormai essere diventato un imperativo anche a livello istituzionale. Il cibo consentito è solo quello che riempie gli intestini e gli scarichi; il cervello secondo questa prospettiva, non ha bisogno d’alcun nutrimento. In certi momenti è lecito svuotare al supermercato gli scaffali dell’amuchina, della pasta e dei surgelati ma si negano gli strumenti per comprendere il presente che solo la cultura e l’istruzione possono garantire.

Giusto il contrario di quello che sostiene da sempre un grande ammiratore del regista, riminese, Alejandro Jodorovskj: “solo l’arte ci può guarire”. Non è il caso di fare polemica però, dobbiamo parlare di cinema. L’epidemia con 8 ½ di Fellini non c’entra proprio niente, siamo seri! O no?

Scrive Tullio Kezich nella sua monumentale biografia:

Nel febbraio 1962 c’è il timore di un’epidemia di vaiolo e nella sede milanese della società 22 Dicembre, dove si affollano le postulanti (attrici per una parte nel film) al regista viene praticata una iniezione antivaiolosa. Forse sotto l’effetto di una leggera febbre il giorno dopo, viaggiando verso Trieste, Federico ha un paio di soprassalti profetici. A colazione, facendo tappa a San Michele di Latisana, parla a lungo di quanto gli piacerebbe fare un film fantamitologico e in un contratto burlesco che firma a un commensale prefigura in pratica il progetto del Satyricon. E la sera stessa, alla Stazione marittima di Trieste, s’incanta davanti a un transatlantico illuminato. Vorrebbe salire a bordo, ma non ottiene il permesso: “Bisognerebbe costruirselo in studio e girarci un film”,conclude Fellini, anticipando di vent’anni E la nave va.1

Lasciamo perdere! In ogni caso, allo stato attuale, non c’è niente di più terapeutico che vedersi un bel film. Per di più le misure anti coronavirus che prescrivono una certa distanza tra persona e persona rendono i cinema decisamente più comodi; nella nuova sala Astra del Visionario, in mezzo ad ogni spettatore erano previsti due posti vuoti. Certo la situazione ha un po’ del surreale ma tutto sommato risulta davvero piacevole.

Questa modesta recensione non vuole certo aggiungere niente di nuovo agli interi scaffali di biblioteca che sono stati scritti su quello che è considerato a ragion veduta il più importante film della storia del cinema in assoluto. Si vuole solo tentare modestamente di mettere in luce qualche aspetto meno noto al grande pubblico.

Come inizia 8 ½ : Nel mezzo del cammin di nostra vita…ops! Questo è l’incipit dell’opera di un altro profeta visionario.

Ricominciamo. Guido Anselmi, un famoso regista di 43 anni (la stessa età di Fellini del quale è alter-ego), in piena crisi creativa, non si decide ad iniziare a girare il proprio film di fantascienza in fase avanzata di produzione. Gli scenografi hanno già costruito una colossale struttura in tubi innocenti che rappresenta la base di lancio di un’astronave che serve alla fuga nello spazio dei sopravvissuti alla Terza Guerra Mondiale. Anche in questo caso negli spettatori s’insinuava un sottile disagio al pensiero del clima da coprifuoco fuori dalla sala. Il regista compie un viaggio dentro di se per ritrovare l’ispirazione ma, dopo aver preso in esame memorie d’infanzia, amori, illusioni, fallimenti, meschinità e grandi slanci, capisce di aver fallito e abortisce l’idea. Il film, in sostanza, è un’allegria di naufragio, una gioiosa catastrofe, una lieta sconfitta com’è, in fondo, la vita di ognuno di noi. Per quanto facciamo la vita ci supera, ci dimostra di non aver bisogno di noi. Come si dice nel film: “Chi ha detto che veniamo al mondo per essere felici?” La nostra è solo la necessità di un’illusione. Il meraviglioso, celeberrimo girotondo finale altro non è, dunque, che una festosa Danse Macabre, una danza che celebra la vita in punto di morte: si ricordi, e non solo per associazione di idee, la sequenza finale di Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1954).

Quando nessuna speranza è rimasta (il protagonista poco prima si è sparato, sotto al tavolo della conferenza stampa) quando tutto sembra perduto, l’irrazionale gioia di vivere riemerge. Sono gli affetti più profondi che danno un senso postremo alla nostra esistenza anche se in essa non c’è proprio niente di logico. Come dice un altro poeta: “Voglio trovare un senso a questa vita. Anche se questa vita un senso non ce l’ha”. La locuzione latina Cupio dissolvi, il cui significato prende origine per traslato dalla Prima lettera ai Filippesi di San Paolo, esprime non tanto di un desiderio di morire quanto  un desiderio di vivere pienamente. Nell’uso comune la frase ha preso anche il significato di “desiderio di operare il disfacimento di se stessi” e quindi anche quello di “annullarsi”, di “auto-distruggersi” per essere un tutt’uno con la vita stessa; liquefare la propria rigida identità per confluire nella liquida realtà alla quale apparteniamo; rifluire nel fiume della vita facendosi finalmente portare dalla corrente.

Federico Fellini allora in crisi lo era davvero. Aveva avuto un crollo psicologico grave già ai tempi de La strada (1954) che lo avevano portato a frequentare brevemente lo studio dello psicologo freudiano Emilio Servadio e ad intraprendere una lunga ricerca spirituale e di consapevolezza interiore molto profonda. Le sedute di psicoterapia non furono moltissime, forse anche perché il regista non gradiva l’approccio troppo scientifico alla terapia di stampo freudiano.

Freud con le sue teorie ci obbliga a pensare; Jung, invece, ci permette di immaginare, di sognare, e ti sembra, addentrandoti nell’oscuro labirinto del tuo essere, di avvertire la sua presenza vigile e protettrice…Jung è un compagno di viaggio, un fratello più grande, un saggio, uno scienziato veggente”.2

Quel primo blocco creativo e quella crisi profonda che prostrò il regista erano forse anche il risultato di quasi due decenni di lavoro e di sacrifici incredibili che lo avevano impegnato strenuamente nel mondo del giornalismo, del fumetto e poi del cinema soprattutto come soggettista e sceneggiatore.

Prima di esordire in proprio, infatti, Fellini aveva collaborato attivamente alla realizzazione di non meno di venti film, scritto un centinaio di puntate di programmi radiofonici, battute per il varietà, vignette per giornali satirici, in un vortice di impegni che alla lunga non poteva che essere defaticante. Uno dei suoi articoli giovanili, tra il serio e il faceto, che sembrano profetici a tale riguardo e gli diede una certa notorietà all’epoca fu: E’ dannoso l’uso continuativo degli eccitanti psichici? Nelle risposte ricorrevano l’uso dei farmaci d’uso corrente cui anche Fellini faceva ricorso in grande quantità, Simpamina, Simpatol, Pervitin.3

Dello psicologo Servadio, il regista si ricordò quando, elaborando le prime idee per 8 ½, volle provare la sostanza che si diceva allora apriva le porte della percezione psichica: Lsd (dietilamide-25 dell’acido lisergico).

In Fare un film, Felini scrive:

Come quella volta che per far contenti dei medici amici che stavano studiando gli effetti dell’Lsd, accettai di far da cavia e bevvi un mezzo bicchiere d’acqua dove dentro era stata lasciata cadere un’infinitesima parte di un milligrammo di acido lisergico. Anche quella volta la realtà degli oggetti, dei colori, della luce, non aveva più alcun senso conosciuto. Le cose erano se stesse, sprofondate in una grande pace luminosa e terrificante. In momenti come quello le cose non ti pesano; non vai a bagnare tutto con la tua persona, come un’ameba. Le cose diventano innocenti perché togli di mezzo te stesso; una verginale esperienza, come il primo uomo può aver visto vallate, praterie, il mare. Un mondo immacolato che palpita di luce e di colori viventi col ritmo del tuo respiro; tu diventi tutte le cose, non sei più separato da loro, sei tu quella nube vertiginosamente alta nel mezzo del cielo, e anche l’azzurro del cielo sei tu, e il rosso dei gerani sul davanzale della finestra, e le foglie, e la trama fibrillante del tessuto di una tenda. E quello sgabello davanti a te cos’è? Non sai più dare un nome a quelle linee, a quella sostanza, a quel disegno, che vibra ondulando nell’aria, ma non t’importa, sei felice… Ma improvvisamente essere tagliato fuori dal ricordo della mediazione concettuale ti fa sprofondare in un abisso d’angoscia insostenibile; di colpo quella che un attimo prima era l’estasi ora è l’inferno. Forme mostruose senza senso né scopo. Quella nube schifosa, quell’atroce cielo azzurro, quella trama oscenamente respirante, quello sgabello che non sai che cos’è, ti strangolano in un orrore senza fine”.

In questa lunga citazione è facile scorgere una parte dell’essenza della creatività di Fellini sempre in funambolico equilibrio tra una realtà cercata fin nelle più piccole cose quotidiane e una verità che si deforma nel ricordo e che affiora anche nella sua mostruosità grazie alle distorsioni della memoria. La medesima cosa può essere quindi dolcissima e lieve come lancinante e greve.

In questo senso va intesa la celeberrima sequenza nella quale un cardinale concede una prima strana udienza a Guido Anselmi nel giardino delle terme. Il Cardinale racconta il mito dei guerrieri di Diomede che piangevano la morte del loro eroe. Afrodite impietosita li trasformò in meravigliosi uccelli dal particolarissimo verso che sembrava il pianto di un bambino. Da allora le Diomedee, della stessa famiglia degli albatri cari al poeta Baudelaire (citato nel finale del film), cantano la leggenda e la morte del più grande dei guerrieri achei, distruttore di Troia e fondatore delle civiltà Adratiche. Sembra essere questo il senso dell’arte e della vita nella poetica di Fellini: il verso di un animale che ricorda e piange in un antico mito.

Questo concetto lega indissolubilmente Fellini a Ernst Bernhard, lo psicoanalista allievo diretto di Carl G. Jung, che frequentò, immancabilmente, tre volte a settimana nei quattro anni che separano La Dolce vita (1960) da Giulietta degli spiriti (1965) che può essere considerato il diario delle sue esperienze psicoanalitiche di quel periodo.

Ricorda Fellini:“Ci siamo visti molto spesso, a volte anche fuori dal suo studio. Bernhard mi ha sempre ispirato un sentimento di grande pace…L’immagine del suo studio in via Gregoriana. L’ora in cui lo andavo a trovare più volentieri era quella del tramonto, quindi c’era un sole che a un certo momento rendeva tutto dorato il pulviscolo della stanza. C’erano grandi finestre e l’occhio si perdeva su un panorama sterminato di Roma, mentre giungevano i rintocchi di tutti i campanili. Sembrava di essere in una mongolfiera sospesa nell’aria”.

Non c’è sequenza o idea di 8 ½ che Fellini non abbia discusso a lungo con il proprio psicoanalista, il film può anzi essere agevolmente considerato il risultato finale di quella terapia che si avvaleva del metodo Mitobiografico inventato dallo stesso Bernhard che concepisce “la vita come un preciso disegno, principio metafisico posto come motore primario della vita e della coscienza che si manifesta nella coscienza facendo apparire l’interna necessità a cui è soggetta ogni parte, come volontà”.

Una dottrina, in realtà, piuttosto discutibile e fumosa ma, in questo caso, efficace che univa i principi archetipici della psicoanalisi junghiana, alla Cabala passando per la mitologia antica e le dottrine orientali. In quegli anni Fellini, infatti, teneva sempre a portata di mano una copia rilegata in pelle regalatagli da Bernhard dell’I-Ching, il libro delle divinazioni cinese che consultava febbrilmente.

In conclusione non si può non tener conto dell’ispirazione che Fellini ebbe da uno dei film che più gli erano cari: Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1957). I due registi apparentemente diversi per formazione e cultura, avevano moltissimo in comune e una reciproca ammirazione e stima. Fellini lo considerava il proprio fratello nordico. Tra i grandi film perduti perché non realizzati della storia del cinema ci sono proprio quelli che i due più volte hanno vagheggiato di fare insieme.

Un dialogo dal film di Bergman può fornirci uno spunto finale per un’ulteriore riflessione su 8 ½ che però lasciamo in sospeso come un passo di danza misterioso e leggero:

Marianne: Hai dormito bene?

Isak: Si, ma ho sognato. Pensa. In questi ultimi mesi ho fatto i sogni più incredibili. E’ davvero comico.

Marianne: Cosa è comico?

Isak: Be’, ho come l’impressione di voler dire a me stesso qualcosa che non voglio sentire da sveglio.

Marianne: E cosa dovrebbe essere?

Isak: Che sono morto. Anche se vivo.

1Tullio Kezich, Fellini, Bur, Milano 1988, pag.319-320.

2Federico Fellini, 1983 tratto da Jung e la cultura del Xxsec. Di Aldo Carotenuto.

3L’inchiesta faceva parte di “Terziglio” un programma radiofonico dell’Eiar di grande successo, il cui testo fu pubblicato sulla rivista satirica “Marc’Aurelio” il 21/03/1942. Kezich,op.cit., pag.65.

© Flaviano Bosco per instArt

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